Oggi fare il consulente significa saper comunicare e persuadere

In un mondo in cui tutti si reputano consulenti in ogni settore professionale, il termine consulenza appare ormai inflazionato e svuotato di significato. Riteniamo che nel rapporto di consulenza entrino in gioco un paio di fattori chiave. Vediamola quindi, come sempre, dal punto di vista del cliente, ovvero di colui che sancirà se la consulenza fruita è di valore. Da un lato, la consapevolezza della propria “ignoranza” rispetto al tema oggetto della consulenza: «Io, cliente, non ne so niente (o poco)». Dall’altro, il riconoscimento di una superiore competenza tecnica del consulente: «Dato che io non ne so niente (o poco), è meglio che sia tu a fare o a dirmi che cosa fare».

Benissimo: qui siamo nella parte hard, nella prestazione «dura e pura» della consulenza. Poi però si parla anche di rapporto interpersonale tra consulente e cliente, di rapporto di fiducia, di relazione: e qui ci muoviamo in un mondo soft, fatto di percezioni, emozioni, comunicazione. Qualunque attività di consulenza professionale ha quindi sempre due dimensioni: quella tecnico/specialistica e quella relazionale. Quale sarà quella più importante?

Dipende dal tipo di consulenza offerta, che a sua volta è definita da due elementi sostanziali:

  1. La percezione di «valore tecnico» (bassa quando la percezione del cliente è di ricevere servizi a basso valore o, al contrario, alta):
  2. L’importanza della “relazione” cliente/consulente (bassa, ossia poco rilevante per il cliente o, al contrario, alta).

Semplificando, possiamo immaginare una matrice (con la «complessità relazionale» sull’asse verticale e la «complessità tecnica» sull’asse orizzontale) con quattro diversi tipi di consulenza.

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